L’emergenza coronavirus ha varcato i confini delle zone rosse e con la conferenza stampa del 9 marzo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha esteso a tutta Italia le misure restrittive, già applicate per la Lombardia e le 14 province del nord più colpite dal contagio. Alla luce della pesante situazione che sta immobilizzando il Paese, bisogna fare maggiore chiarezza per non complicare ulteriormente il momento già difficile.
Nel decreto legge N. 9 del 2 marzo scorso, riguardo “le misure urgenti di sostegno a famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da coronavirus”, all’articolo 33 si specificano i dettagli relativi alle misure per il settore agricolo.
In particolare, il comma 4 spiega che “costituisce pratica commerciale sleale vietata nelle relazioni tra acquirenti e fornitori (…) la subordinazione di acquisto di prodotti agroalimentari a certificazioni non obbligatorie riferite al COVID-19 nè indicate in accordi di fornitura per la consegna dei prodotti su base regolare antecedenti agli accordi stessi”.
Insomma, per i prodotti agroalimentari non si possono richiedere certificazioni legate al coronavirus: si tratterebbe di una richiesta illecita che prevede sanzioni da 15mila a 60mila euro.
Il ministero della Salute, inoltre, ha chiarito che allo stato attuale non c’è alcuna evidenza scientifica che attesti la trasmissione del virus dagli animali domestici all’uomo attraverso gli alimenti. A dimostrazione che la sicurezza alimentare continua a essere garantita dalle norme vigenti.
I consumatori possono stare tranquilli. Bisogna che tutti prendiamo le dovute precauzioni per combattere questa battaglia ma a tavola, con i prodotti italiani, non c’è pericolo.