Le troppe incertezze nell’applicazione della nuova definizione di rifiuto urbano, introdotta con il decreto legislativo 116/2020, preoccupano le imprese. Le criticità sono emerse soprattutto nella fase di scrittura dei nuovi regolamenti comunali che, in molti casi, sembrano disattendere alcuni importanti chiarimenti che il ministero per la Transizione ecologica ha diffuso con la circolare del 12 aprile scorso e successivamente con quella del 14 maggio.
Per tali ragioni CNA, le altre Confederazioni rappresentative dell’artigianato e della piccola impresa e l’Associazione delle imprese di riciclo, Unirima, hanno promosso congiuntamente un webinar informativo con le proprie strutture territoriali e le imprese.
A supportare tale iniziativa il parere redatto da un importante studio legale – esperto nelle materie ambientali – che contribuisce a fare chiarezza su alcuni dei nodi più critici di questa vicenda e conferma, su basi giuridiche, la piena legittimità delle disposizioni di legge e delle successive interpretazioni ministeriali.
In primis, coerentemente con le indicazioni ministeriali, si ribadisce che le lavorazioni artigianali, analogamente a quanto avviene per le lavorazioni industriali, sono da considerarsi prevalentemente produttive di rifiuti speciali e, quindi, le aree dove si svolge la lavorazione artigianale sono da considerarsi sottratte all’applicazione della Tari. Lo stesso vale per i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all’esercizio di attività produttive di rifiuti speciali, sia con riferimento alla quota fissa che alla quota variabile.
Si è posta inoltre l’attenzione sull’annosa questione della durata quinquennale nella scelta delle imprese che intendono conferire al di fuori del servizio pubblico i propri rifiuti urbani. Un riferimento temporale che, come evidenziato con fermezza dall’Antitrust, non può in alcun modo essere considerato vincolante. Come non può essere considerato un obbligo per le imprese quello di indirizzare la scelta verso il servizio pubblico o privato per tutte le tipologie di rifiuti urbani. Questa ipotesi non avrebbe alcun fondamento nella norma né alcuna logica anche rispetto alla necessità di orientare le imprese verso le modalità di conferimento più efficienti e più in linea con gli obiettivi ambientali, lasciando alle imprese di conseguenza la libertà di decidere di servirsi per alcune frazione del servizio pubblico e per altre del mercato.
E’ utile evidenziare, infine, come alla base di tutte le predette considerazioni vi sia quanto più volte chiarito dal ministero: ovvero che la nuova definizione di rifiuto urbano “deve essere applicata nell’ottica generale di raggiungimento degli obiettivi imposti dalla direttiva e non con il fine di stravolgere una gestione dei rifiuti già strutturata ed efficace, tanto da non voler incidere con la ripartizione delle competenze tra pubblico e privato nell’ambito della gestione medesima” e che “è doveroso sottolineare come la definizione di rifiuti urbani debba essere intesa esclusivamente ai fini degli obiettivi di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio nonché per le relative norme di calcolo.”
Auspicando che su alcune di queste tematiche si possa intervenire a sciogliere definitivamente le criticità anche attraverso un intervento normativo sulle norme adottate con il decreto 116/2020, riteniamo di aver contribuito con l’iniziativa odierna a mettere un ulteriore ed importante tassello volto ad evitare che la riforma introdotta si trasformi, per una sua errata applicazione, in aumenti della Tari insostenibili per le imprese ed in uno ingiustificato spostamento verso la gestione pubblica dei rifiuti prodotti dalle imprese che in questi anni sono stati efficacemente gestiti dagli operatori del settore.