Con la sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che fissa, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela dc. “indennitaria forte” per i lavoratori assunti a partire dal 7/1/2015, un criterio standardizzato di liquidazione dell’indennità parametrato esclusivamente in base all’anzianità di servizio.
Per comprendere il ragionamento della Corte occorre ripercorrere brevemente l’evoluzione normativa in tema di licenziamento.
Fino al 2012, per le aziende che avevano più di 15 dipendenti, l’art. 18 della l. 300/1970 prevedeva la cd. “tutela reale” in caso di licenziamento. Tale tutela era volta ad eliminare gli effetti del licenziamento e quindi a disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento del danno subito, pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra.
Tale disposizione comportava un’eccessiva discrezionalità del giudice e, conseguentemente, una forte incertezza sugli effetti, anche economici, di un licenziamento illegittimo. Per questo motivo emerge la necessità di una riforma, che vede la luce nel 2012.
Con la legge n. 92/2012, il Legislatore ha ipotizzato 4 tipi di tutele per il licenziamento illegittimo (due tutele reintegratorie e due tutele indennitarie), lasciando al giudice il compito di individuare quale sanzione applicare (tra le quattro previste dalla norma) in base al motivo di illegittimità del licenziamento. Questa Riforma, tuttavia, nei fatti finisce per aumentare l’incertezza del diritto e getta le basi per un nuovo intervento riformatore.
Il Jobs Act, nel 2015, introduce il contratto a tutele crescenti, un contratto a tempo indeterminato che si caratterizza per la particolare disciplina prevista in caso di licenziamento illegittimo: la norma dispone, infatti, che il regime sanzionatorio debba essere sottoposto a criteri che siano predeterminati dal Legislatore e non affidati al prudente apprezzamento del giudice. Il Legislatore stabilisce che l’indennità debba crescere con l’anzianità del lavoratore, in quanto la maggiore anzianità lavorativa comporta una maggiore difficoltà nel cercare una nuova occupazione.
Proprio su quest’ultimo ragionamento interviene la Corte, la quale chiarisce che la modalità di calcolo individuata dal Legislatore si manifesta irrazionale in quanto non coglie la diversità di situazioni che si possono generare a seconda della gravità del danno.
La Corte Costituzionale, inoltre, offre due chiarimenti importanti sulla norma.
In primo luogo sancisce che l’indennità di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 è un’indennità risarcitoria e omnicomprensiva.
In secondo luogo, chiarisce che nel rispetto dei limiti minimo e massimo dell’indennità, come parametrati dalla legge, il giudice deve tener conto anche di altri criteri, oltre quello dell’indennità di servizio. Si tratta dei criteri desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle Parti.
Pertanto, il rigido criterio di determinazione dell’indennità, che non permette al giudice di valutare caso per caso e consente all’azienda di conoscere in anticipo i costi del licenziamento, è stato ritenuto dalla Corte un sistema sanzionatorio poco dissuasivo.
Restano comunque delle questioni aperte dopo la pronuncia della Consulta.
In primo luogo appare evidente come tutte le indicazioni contenute nella sentenza siano NON VINCOLANTI in quanto non si trovano nella parte dispositiva del provvedimento.
In secondo luogo, la sentenza, poi, interviene solo su una parte del testo normativo, non occupandosi di conciliare le altre disposizioni normative, che all’interno del d.l. 23/2015, riguardano la misura dell’indennità. Si pensi, ad esempio, al fatto che la pronuncia non interviene sulla disciplina dell’offerta conciliativa, sicché il datore di lavoro potrà ancora offrire al lavoratore, in sede protetta, un assegno circolare di importo pari minimo a 3 e massimo a 27 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avendo quale base di calcolo 1 mensilità per ogni anno di servizio, per chiudere, entro 60 giorni dalla comunicazione, il contenzioso relativo all’irrogato licenziamento.
E’ evidente che al lavoratore, soprattutto se in possesso di un’anzianità di lavoro piuttosto bassa, potrebbe, allora, convenire rischiare l’alea di un giudizio, sperando di ricevere per decisione del giudice un’indennità superiore rispetto a quella, certa e predeterminata, che otterrebbe in sede di conciliazione.