Gli interventi di politica sociale contenuti nella Legge 29 dicembre 2022, n. 197, non si limitano alla sola introduzione di “Quota 103” quale nuova misura transitoria di flessibilità in uscita, ma incidono anche su altri istituti giuridici, talvolta variandone significativamente l’impianto già esistente, (opzione donna; meccanismo di perequazione automatica delle pensioni; Reddito e pensione di cittadinanza e politiche attive connesse), e altre volte riproponendone taluni già sperimentati in passato (incentivo al trattenimento in servizio dei lavoratori, c.d. “Bonus Maroni”).
Nel merito, il nuovo “trattamento di pensione anticipata flessibile”, Quota 103, consente di accedere al pensionamento con almeno 62 anni di età e 41 di contribuzione.
Anche tale misura, al pari delle precedenti “Quota 100” e “Quota 102”, è stata introdotta in via sperimentale (per il solo anno 2023), in attesa della più volte annunciata e altrettanto rinviata rivisitazione strutturale della “legge Fornero” sulle pensioni. Inoltre, anche tale misura non è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al compimento dei 67 anni di età (eccetto il lavoro autonomo occasionale, nei limiti di 5mila euro lordi annui). Costituisce invece una novità la disposizione relativa al tetto di importo pensione massimo percepibile (pari a circa 2.820 euro lordi mensili), quale meccanismo di condizionalità finalizzato a scoraggiare eventuali “esodi” di massa, che comporterebbero carenze di organico per particolari settori professionali.
La misura, nel suo complesso, appare scarsamente attrattiva per il mondo del lavoro autonomo, come già verificato con “Quota 100” e “Quota 102”, delle quali essa ne ricalca l’impianto generale.
Dai dati ufficiali Inps, infatti, tali ultime misure sono state utilizzate in massima parte dai lavoratori dipendenti in generale, e dai dipendenti del pubblico impiego in particolare. Anche il nuovo meccanismo di condizionalità sopra accennato vale a confermare ulteriormente come la misura sia pensata principalmente per la sfera del lavoro dipendente e non per quello autonomo, evidentemente estraneo ad eventuali possibilità di esodo.
In effetti, il principale motivo per il quale tali misure di anticipo pensionistico non trovano apprezzabile applicazione tra i titolari di impresa artigiana è da ricercarsi nella prevista incompatibilità tra attività lavorativa e trattamento pensionistico. Alla luce di ciò, e per ragioni di equità, sarebbe ad esempio possibile mutuare per gli autonomi la misura, pure prevista dalla Legge di Bilancio 2023, di incentivo al trattenimento in servizio che consente, ai dipendenti in possesso dei requisiti di Quota 103, di “dirottare” la propria quota contributiva ai fini I.V.S. verso lo stipendio percepito, aumentandone così la consistenza (ma a naturale detrimento dell’accantonamento contributivo che darà luogo all’importo del trattamento pensionistico futuro). Con i necessari aggiustamenti, un meccanismo del genere renderebbe certamente più appetibile anche per gli autonomi la nuova “Quota 103”.
Appare davvero incomprensibile la perpetrata discriminazione nei confronti dei lavoratori autonomi rispetto alla possibilità di accedere sia allo scivolo pensionistico, c.d. “APE sociale”, sia all’accesso anticipato per lo svolgimento di attività precoce con 41 anni di contribuzione. La disciplina attualmente in vigore, e confermata dalla Legge di Bilancio 2023 prevede infatti che possano accedere a tali agevolazioni pensionistiche, tra gli altri, solo i lavoratori dipendenti che svolgono “attività particolarmente faticose e pesanti”, spesso notoriamente svolte in prima persona anche da lavoratori autonomi e titolari d’impresa. Sul tema si rende davvero necessario estendere una volta per tutte la possibilità di accedere ai relativi trattamenti anche ai lavoratori autonomi.
Numerose e significative novità, tanto sui requisiti soggettivi quanto su quelli oggettivi, sono state riservate al pensionamento anticipato delle donne con ricalcolo contributivo, c.d. “Opzione donna”, la cui portata restrittiva ne comporterà un utilizzo molto ridotto rispetto agli anni precedenti.
In particolare, secondo la nuova formulazione, potranno accedere a Opzione donna le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2022 hanno maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e un’età anagrafica di 60 anni, ridotta di un anno per ogni figlio nel limite massimo di due anni.
A ben vedere, l’unica nota positiva della disposizione normativa è rappresentata dal superamento della risalente discriminazione tra il requisito anagrafico richiesto alle lavoratrici autonome (un anno in più) rispetto alle dipendenti, che, nella nuova formulazione normativa, viene implicitamente meno. Forti perplessità solleva invece la applicazione di requisiti anagrafici più favorevoli in ragione del numero di figli avuti dall’interessata. Tale impostazione ripropone quella impronta risarcitoria nei confronti della donna che mal si concilia con il diritto previdenziale di accesso alla pensione.
Ma non è tutto.
L’accesso al pensionamento attraverso Opzione donna potrà avvenire solo per le appartenenti a tre determinate categorie, considerate particolarmente meritevoli di tutela:
a) coloro le quali assistono, al momento della richiesta e da almeno 6 mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità;
b) chi ha una riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile, superiore o uguale al 74%;
c) le lavoratrici licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d’impresa. Per questa categoria di lavoratrici il requisito anagrafico richiesto è comunque pari a 58 anni di età, a prescindere dal numero di figli.
Anche la limitazione alle sole tre tipologie precedenti appare non condivisibile, anche alla luce del basso impatto di spesa derivante dal ricalcolo contributivo del trattamento pensionistico. Per le lavoratrici autonome peraltro, le fattispecie meritevoli di tutela sarebbero ulteriormente ridotte a due, a causa della implicita esclusione dalla platea delle “lavoratrici licenziate”.
La (ennesima) revisione del meccanismo di indicizzazione delle pensioni e l’aumento delle pensioni minime rappresentano due ulteriori importanti interventi della manovra di bilancio.
In merito al primo, per il biennio 2023-2024 è previsto l’adeguamento al tasso di inflazione nella misura del 100% per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a 4 volte il trattamento minimo Inps, mentre per gli importi superiori si va dall’85% per le pensioni tra 4 e 5 volte il T.M. (2.254,96 euro), al 32% per quelle superiori a 10 volte (5.637,4 euro).
Tale sistema di indicizzazione, tornato alla ordinaria disciplina normativa dal 1° gennaio 2022 dopo 10 anni di deroghe ed eccezioni, viene ancora una volta rivisitato al ribasso, con riflessi negativi tanto sul principio di certezza del diritto, quanto su quello per il quale esso trova ragion d’essere.
Con l’intento di contrastare gli effetti negativi delle dinamiche inflazionistiche, in essere e attese, è previsto per le pensioni pari o inferiori al trattamento minimo Inps (563,74 euro) un incremento transitorio pari all’1,5% per l’anno 2023, elevato al 6,4% per i pensionati di età pari o superiore a settantacinque anni.
La misura, nei suoi effetti concreti, appare poco più che simbolica, soprattutto per i pensionati di età inferiore a 75 anni, se si considera che l’incremento massimo possibile può raggiungere 8,5 euro mensili, mentre per una pensione da 300 euro l’incremento sarà pari a 4,5 euro.
Nell’anno 2024 l’incremento sarà pari, per tutti, al 2,7%. Incremento che, si ricorda, senza apposita proroga sarà destinato ad esaurirsi nel solo anno 2024.
Il 2023 sarà l’ultimo anno di vigenza del Reddito di cittadinanza, che lascerà il posto a una “organica riforma delle misure di contrasto alla povertà”. In quest’ottica, che sembra sottendere ad una volontà di futura scorporazione delle politiche di contrasto alla povertà e di inclusione dalle politiche attive del lavoro, il Reddito di cittadinanza è oggetto di rilevanti modifiche restrittive per il 2023: vanno dalla riduzione delle mensilità percepibili (7 mensilità al massimo) all’obbligo scolastico e a percorsi formativi per i beneficiari compresi nella fascia di età dai 18 ai 29 anni (c.d. occupabili). La misura, stando al disposto normativo, sarà interamente cancellata con decorrenza 1° gennaio 2024.
In un’ottica di contrasto al preoccupante fenomeno della denatalità nel Paese, apprezzabili appaiono le misure di sostegno alla famiglia, con particolare riferimento agli incrementi di importo dell’Assegno unico universale e del congedo parentale.
Questi, in estrema sintesi, gli interventi di interesse più rilevanti contenuti nella legge di Bilancio per il 2023, che, insieme ad altre misure diverse (semplificazione dell’ISEE; decontribuzioni e rifinanziamento di vari Fondi sociali; lavoro agile per i “fragili”) hanno il compito di garantire un adeguato sistema di welfare per l’anno appena iniziato.
Antonio Licchetta
(Responsabile Politiche sociali e previdenza CNA)