Tecnologia, sapere antico e coraggio – i restauratori italiani
Con 800 cantieri attivi, centri all’avanguardia e una ricerca sofisticata, siamo tra i leader nel mondo in questa arte secolare. E progetti come quelli di Roma e Milano fanno scuola. Eppure la professione non sfugge ai rischi dei concorsi dalla burocrazia opaca
«I l restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo». Poche righe, trasparenti come il cristallo, che sintetizzano la Teoria del Restauro messa a punto da Cesare Brandi. È ancora l’architrave di una scuola celebre nel mondo, quella fondata nel 1938 proprio da Brandi, eclettica figura di storico dell’arte e critico, su proposta di Giulio Carlo Argan, ai tempi ispettore alle Antichità e Belle Arti: ovvero l’Istituto Centrale per il Restauro, oggi Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. Lì è nato il concetto di Restauro italiano, una metodologia messa a punto cantiere dopo cantiere, problema dopo problema, che ha permesso di curare un patrimonio sterminato. L’Italia detiene, si sa, il maggior numero di siti (51) considerati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
Oggi i restauratori italiani, secondo stime verificate sia dal ministero per i Beni e le attività culturali che dalle associazioni di categoria, sono circa 7 mila. Altri 11 mila sono i tecnici del restauro, specializzati nella preparazione scientifica dei materiali. I cantieri di restauro attivi in questo momento in Italia sono circa 800, dalla piccola chiesa rurale a Pompei. Scegliere qualche esempio significa immergere le mani in una miniera. A novembre l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze presenterà, con il sostegno di Prada tramite il FAI e prima ancora della Getty Foundation, l’atteso restauro dell’«Ultima Cena» di Giorgio Vasari, splendida tavola rimasta danneggiata durante l’alluvione di Firenze nel 1966. Rimase immersa per 48 ore nell’acqua e nel fango al Museo dell’Opera di Santa Croce. Commenta il Soprintendente dell’Opificio, Marco Ciatti: «L’opera sembrava perduta ma, grazie alle nuove tecnologie, abbiamo un risultato stupefacente e simbolico: Vasari è tra i primi nella storia a mettere a fuoco il concetto di restauro. Ecco perché noi italiani siamo leader nel mondo, padroneggiamo la materia da secoli». È stato usato di tutto: raggi X, riprese in 3D pezzo per pezzo, test per la rimozione del fango. I laboratori-spettacolo Ormai i cantieri di restauro diventano sempre più aperti e visibili al pubblico. È successo già a Roma con la Fontana di Trevi (ripristino finanziato da Fendi) e con la Scalinata di piazza di Spagna (col sostegno della maison Bulgari).
L’estate 2016 regala a Bologna un appuntamento imperdibile: il restauro «aperto» della Fontana del Nettuno del Giambologna, uno dei simboli della città. L’operazione porta la firma dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, diretto da Gisella Capponi che così spiega: «È un cantiere-pilota, aperto e visitabile, che prevede la partecipazione attiva di 19 studenti delle scuole di Roma e di Matera, rispettivamente dirette da Donatella Cavezzali e da Giovanna De Palma, più alcuni laureandi che opereranno con i restauratori e gli storici dell’arte. Un modello in 3D, realizzato col Cnr di Pisa, verrà usato per la documentazione. Innovativa è anche la modalità di finanziamento: 679.493 euro stanziati, di cui 200mila dal Comune di Bologna, 222mila da Unindustria e 257.493 dalla raccolta di fondi Comune-Resto del Carlino grazie anche all’Art Bonus». Che è il nuovo strumento ideato dal ministro per i Beni e le Attività culturali, Dario Franceschini: chi investe in cultura ha il 65% di credito di imposta in tre anni. Compie ad agosto due anni di vita e ha già fruttato 100 milioni di euro grazie a tremila diversi mecenati. Le facce della medaglia Naturalmente non c’è solo una faccia della medaglia. L’altra è composta da restauri discutibili e contestati — ne sanno qualcosa Vittorio Sgarbi, storico nemico del concetto di «restauro a tutti i costi», e Bruno Zanardi, restauratore degli affreschi della Basilica di Assisi e fondatore nel 2001 a Urbino del primo corso di laurea per la formazione dei restauratori, che ha descritto molti disastri in Un patrimonio artistico senza, edito da Skira nel 2013. Ma restano tante eccellenze. L’ultimo capitolo del Colosseo, 25 milioni di euro finanziati dal Gruppo Tod’s, ha impegnato squadre di restauratori in un lavoro certosino per la pulitura di 10.150 metri quadrati di travertino della superficie esterna trattati con acqua nebulizzata, spazzole di saggina, malta per stuccare cavità e lesioni, eliminazione di cementi non più idonei. Un caso irripetibile, come ciascun restauro.
Lo spiega bene Gianluigi Colalucci, considerato il massimo restauratore italiano dopo la ripulitura della Cappella Sistina: «Ogni restauro è in qualche modo unico. Le soluzioni tecniche possono ripetersi, ma ogni singola opera, nella sua complessità e nella sua globalità, richiede interventi specifici e originali. Se dovessi dare un suggerimento a un giovane restauratore, gli direi di “entrare” quanto più possibile nell’opera, conoscendola e analizzandola, studiando l’autore e la sua storia, memorizzando i dettagli e prendendo appunti per il futuro». Scrisse nel 1967 Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto Centrale del Restauro dal 1973 al 1983, grande restauratore e nemico della burocrazia ministeriale: «È stato giustamente notato che un quadro può essere restaurato bene in cento modi diversi: o per meglio dire, in tanti modi quanti sono i restauratori capaci di restaurare bene un quadro. Non c’è dunque restauro ben fatto di cui non si possa dire che avrebbe potuto essere fatto diversamente, e altrettanto bene». Urbani, da raffinato intellettuale, amava il paradosso. Ma testimoniava una verità: ogni restauro, come dice Colalucci, è una storia a parte. Basta scorrere il «Diario di viaggio», ovvero il racconto dei restauri presentati a Milano nella diciassettesima edizione «Restituzioni-La bellezza ritrovata», organizzata da Intesa Sanpaolo alle Gallerie d’Italia in piazza Scala. Dal capitolo dedicato al «Ritratto di Cavaliere di Malta» del Caravaggio, di Palazzo Pitti a Firenze: «Il restauro — si legge nel Diario — è stata la chiave di volta per rispondere ai tanti misteri che da sempre caratterizzano questo ritratto, un restauro accurato e condotto con le tecniche più innovative; al nostro cavaliere è stata fatta una radiografia profonda che ha contribuito non poco a rispondere con certezze alle discussioni degli esperti sull’identità del personaggio e il grado di compiutezza dell’opera, la presenza di pentimenti nonché sulle sue dimensioni originali… Altra questione che ha tormentato per anni gli storici dell’arte è il grado di finitura del dipinto. Ebbene, la radiografia ha confermato inequivocabilmente che il dipinto è compiuto. Alcune parti — le mani — sono state lasciate intenzionalmente non finite dall’artista, realizzate con pennellate rapide e con una quantità minima di colore».
Ecco a cosa può servire un restauro, soprattutto quando può disporre di innovative tecnologie al servizio del nostro Patrimonio. Scuole, corsi (e problemi) Ma come si diventa restauratori? Il decreto ministeriale 89 del 2009 ha chiuso decennali incertezze. Oggi ci si laurea restauratori — con indirizzi specifici: dipinti su tela, marmi e pietre, legno, carta e via dicendo — dopo un ciclo quinquennale (studi teorici e pratica nei cantieri e nei laboratori) nelle scuole di alta formazione del ministero (le due scuole dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma e di Matera, l’Opificio delle Pietre Dure a Firenze, l’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario). Oppure in 23 Atenei o alcune Accademie di Belle Arti che rispondono ai requisiti ministeriali. Dai corsi triennali si esce tecnici del restauro. Per il passato, entro il 31 luglio 2016, PROROGATO INCREDEIBILMENTE AL 30 GIUGNO 2017, una commissione ministeriale presieduta dal professor Eugenio Vassallo verificherà i titoli presentati da circa 10 mila tra restauratori e tecnici (già al lavoro da anni) per assegnare definitivamente la qualifica dopo la riforma, DOPO UN’ATTESA DURATA 21 ANNI.