Abbiamo bisogno di introdurre il salario minimo legale in Italia? A questa domanda si è cercato di rispondere nel corso della due giorni dedicata alla contrattazione e alla formazione conclusa questa mattina a Roma presso la CNA nazionale e che ieri ha affrontato il tema in un seminario formativo dal titolo “Salario minimo legale e contrattazione collettiva: problemi applicativi e sfide legislative”.
Nel corso del seminario si è sottolineato come, su questo tema, il confronto giuslavoristico sia sempre stato particolarmente acceso, proprio perché nel nostro ordinamento, a fronte di una disposizione costituzionale che sancisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, non esiste una norma volta ad individuare i criteri ai quali parametrare la retribuzione.
Si è scelto, invece, di affidare alle parti sociali comparativamente più rappresentative il compito di riempire di contenuto i principi costituzionali e, quindi, di individuare, nel concreto della contrattazione collettiva, la misura della retribuzione minima per le diverse qualifiche nei vari settori produttivi. Alla base di questa decisione c’è la ferma convinzione che sono proprio le organizzazioni datoriali e sindacali i soggetti maggiormente in grado di individuare la misura delle retribuzioni, perché conoscono da vicino le capacità delle imprese e il livello di sviluppo del Paese.
In questo ultimo periodo nel dibattito politico è tuttavia venuto in primo piano il tema del salario minimo legale e sono stati presentati due disegni di legge: il Ddl Catalfo (Movimento 5 Stelle) e il Ddl Nannicini (Pd). Questi Ddl muovono dall’idea che ci sia un problema di lavoratori poveri e ritengono che un intervento normativo sia lo strumento giusto per affrontarlo. Il tema, però, è complesso più di quanto si pensi. Si rischia, infatti, un peggioramento del sistema attuale introducendo meccanismi pericolosi che potrebbero livellare verso il basso le retribuzioni di tutti, spesso fissate molto più in alto dalla contrattazione collettiva.
Queste le questioni affrontate nel seminario, moderato da Maurizio De Carli, Coordinatore del Dipartimento relazioni sindacali della CNA, da esperti qualificati come il professor Michele Faioli, dell’Università di Tor Vergata e consigliere esperto del Cnel, la professoressa Stella La Forgia, docente di diritto del lavoro dell’Università di Bari e Andrea Garnero dell’Ocse.
Michele Faioli ha chiarito le insidie che il legislatore rischia di dover affrontare introducendo il tema del salario minimo legale.
“Per evitare conseguenze spiacevoli o salti nel buio in tema retributivo – ha spiegato –consiglierei una norma di legge che fa distinzione fra i minimali retributivi senza intervenire in maniera così forte, preponderante, coattiva con un salario intersettoriale, come nel caso dei famosi 9 euro. In ogni caso l’importo del salario minimo legale deve essere rispettoso della contrattazione collettiva perché altrimenti si rompono gli equilibri fra parti datoriali e parti sindacali”.
La comparazione dei due Ddl, Catalfo e Nannicini, è stata invece oggetto dell’intervento di Stella Laforgia. “I 9 euro fissati nel Ddl Catalfo, a seconda di chi li legge, possono risultare un livello troppo alto o troppo basso”: ha chiarito. “Eliminare questo numero significherebbe restituire alle parti sociali il vero potere di autorità salariale, ovvero fare in modo che siano gli unici soggetti deputati alla fissazione del salario nel punto di equilibrio che le parti medesime raggiungeranno in quel momento a seconda delle condizioni date del mercato”. Sull’opportunità di discutere del tema del salario minimo legale la Laforgia è stata possibilista, ma a una condizione: “Le parti sociali devono restare protagoniste assolute della materia retributiva”.
Il paragone fra l’Italia e gli altri Paesi Europei in tema di salario minimo è stato illustrato da Andrea Garnero dell’Ocse, in collegamento da Parigi. “E’ uno strumento molto diffuso nel mondo, utilizzato negli Usa e introdotto in Europa anche da Paesi come Germania e Francia che non lo avevano nel proprio ordinamento. Al momento c’è anche un dibattito sul salario minimo europeo. Al di là delle singole realtà specifiche, la contrattazione collettiva e il salario minimo possono coesistere ma laddove, geograficamente e per settore, la contrattazione collettiva è forte i salari sono più alti”.
“La contrattazione collettiva e le relazioni sindacali nel loro insieme – ha detto Maurizio De Carli in chiusura dei lavori – hanno dimostrato, nel corso della storia di questo Paese, di saper trovare sempre soluzioni per imprese e lavoratori, compreso il tema del salario. Penso che al momento non ci sia una reale esigenza di introdurre una nuova normativa in tema di salario minimo proprio perché la contrattazione collettiva copre, ed è in grado di coprire, tutti i settori. Anche la questione dei lavoratori poveri non è certo dipesa dalla contrattazione. Contrattazione che negli ultimi anni, pur attraversati da una crisi profonda, è riuscita a dare aumenti salariali superiori all’inflazione mantenendo un livello di retribuzione idoneo al costo della vita”.
“A differenza di molti Paesi Europei che sono dovuti ricorrere ad una legge in materia di retribuzione minima a causa delle inefficienze della contrattazione collettiva – ha concluso -in Italia le parti sociali sono riuscite nel corso degli anni a dare risposta alle molteplici esigenze provenienti dal mondo del lavoro, progettando e costruendo non solo un minimo salariale, ma anche una moderna struttura di prestazioni di welfare e/o di bilateralità, che ha arricchito le tutele sociali in modo più efficace e più organico di quanto avrebbe fatto una legge sul salario minimo legale”.