Siamo ormai abituati da tempo a dover gestire le molte contraddizioni della TARI (e dei sistemi di tassazione sui rifiuti che l’hanno preceduta). Criticità determinate dalla combinazione negativa di una normativa mal fatta ed ulteriormente gravata da interpretazioni errate da parte dei Comuni.

Nel caso specifico della vicenda “scoppiata” in questi giorni, la problematica riguarda l’applicazione del tributo per le utenze domestiche di alcuni Comuni che hanno adottato una doppia applicazione della quota variabile della TARI sull’abitazione e sulle pertinenze. Per il rimborso delle somme non dovute i contribuenti possono avanzare istanza di rimborso; in ragione di ciò, sono già stati paventati da parte degli stessi Comuni ulteriori aumenti di un tributo già particolarmente gravoso, che dovranno sostenere imprese e cittadini.

Ma, come detto, questa è solo l’ultima di molte problematiche vissute nel tempo. Infatti, La storia del tributo sui rifiuti è lunga e travagliata.

Dal ‘97 in poi, anno in cui si sancisce il passaggio dal sistema della tassa a quello della tariffa, è il caos. Abbiamo visto susseguirsi 5 diversi sistemi di imposizione (TARSU, TIA 1 e 2, TARES, TARI), numerosi interventi normativi, svariate interpretazioni sulla natura del tributo, circolari ministeriali e dell’Agenzia delle Entrate, sentenze e, soprattutto, applicazioni estremamente diverse da territorio a territorio.
Cambiano le norme, ma molte criticità permangono nel tempo. Ad oggi, finito il 4° anno di vigenza della TARI, il “bilancio” della vicenda presenta ancora molteplici complessità.

Per le imprese, la problematica principale riguarda la disapplicazione da parte di molti Comuni del divieto, sancito ormai chiaramente con una risoluzione del MEF del 2014, di applicare la TARI sui rifiuti speciali prodotti dalle imprese. Un principio che dovrebbe essere scontato, per gli “addetti ai lavori”.

Infatti, se nel corso degli anni è stato chiarito che la funzione del tributo sui rifiuti urbani è finalizzata alla copertura del costo del servizio di gestione di tali rifiuti, è evidente che non possono rientrare nell’ambito di applicazione di tale tributo i rifiuti speciali che le imprese smaltiscono al di fuori del servizio pubblico rivolgendosi al mercato (che, peraltro, rappresenta in genere la via più efficiente sia da un punto di vista economico che ambientale).

Su questo aspetto i Comuni, che hanno un’ampia potestà attiva nel definire i criteri di imposizione della TARI attraverso i propri regolamenti, danno le interpretazioni più varie. E così, capita che alcuni Comuni escludano le superfici di produzione ma non le aree ad esse connesse come ad esempio i magazzini, altri Comuni diano una interpretazione restrittiva escludendo solo le aree occupate da macchinari,  fino ai casi più eclatanti di Comuni che ignorano totalmente l’indicazione della norma applicando la TARI anche sulle aree nelle quali si producono rifiuti speciali. A ciò si aggiunge una applicazione “forzata” da parte dei Comuni dell’istituto dell’assimilazione (ovvero la possibilità di assimilare agli urbani anche i rifiuti prodotti dalle imprese – rifiuti speciali, dunque – che per caratteristiche quantitative e qualitative siano simili appunto ai rifiuti urbani).

L’impatto di questi errori è estremamente rilevante.

Basti pensare che tra i calcoli “scorretti” e non coerenti con la norma fatti dal Comune, e le cartelle poi rettificate grazie anche agli sforzi della CNA sul territorio, i margini di variazione superano anche l’80%: a titolo esemplificativo, ci sono state cartelle inviate all’azienda con un’imposizione di oltre 8.500 euro, scese a poco più di 2.000 euro a seguito della contestazione.

Insomma, pare proprio che la TARI, più che essere un tributo volto a coprire i costi del servizio si sia trasformata in una vera e propria leva per sanare i bilanci comunali. Una situazione insostenibile, su cui la CNA da tempo chiede risposte, e in particolare:

  • Una definizione più chiara della norma nazionale che possa risolvere in via definitiva gli aspetti che in questi anni sono stati oggetto di interpretazioni incoerenti.
  • La definizione dei criteri di assimilazione (dopo 10 anni di attesa, sembra che sia in fase di emanazione il decreto ministeriale), nel rispetto dei limiti quali-quantitativi e  che possa chiarire, coerentemente la normativa comunitaria che pone in capo al produttore del rifiuto la responsabilità rispetto alla gestione dei rifiuti stessi, che l’assimilazione non implica in alcun modo un obbligo di gestione dei rifiuti assimilati nell’ambito del servizio pubblico.
  • Come obiettivo finale, occorre in tempi rapidi attuare su tutto il territorio nazionale l’applicazione della cosiddetta tariffa puntuale, in base alla quale, secondo criteri omogenei da declinare sul territorio, la TARI venga applicata sulla base delle quantità e tipologia di rifiuti prodotti ed effettivamente conferiti al servizio pubblico.

 

Queste proposte non solo contribuiscono a fare maggiore chiarezza sollevando le imprese da costi ingiustificati, ma consentono una più coerente applicazione del diritto europeo di tutela dell’ambiente, favorendo una gestione più sostenibile dei nostri rifiuti.

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